L'autolesionismo e i comportamenti autolesivi possono essere di diversi tipi, sottendere diverse motivazioni e avere diverse cause. In questo articolo cercherò di fare una panoramica quanto più esaustiva sull'autolesionismo e i comportamenti autolesivi.

 

 


Cos’è l’autolesionismo?

L’autolesionismo è un comportamento tramite il quale un individuo si infligge delle lesioni superficiali ma dolorose sulla superficie corporea (APA, 2013). È importante distinguere tra diversi tipi di comportamenti autolesivi.

La prima distinzione da fare è tra comportamenti autolesivi finalizzati al suicidio e comportamenti autolesivi senza intenzione suicidaria (attualmente chiamati Non Suicidal Injury Self Injuty – NSSI). Sebbene infatti sia molto alto il tasso di tentato suicidio tra chi ha praticato autolesionismo sembrerebbe essere una categoria di pazienti distinta da quelli con intenzione suicidaria (APA, 2013).

Un’altra distinzione importante da fare per non fare confusione è quella tra comportamento autolesivo culturale, praticato per motivi rituali (spiritualità culturale) o di moda (ornamentale, di apparenza) e comportamento autolesivo patologico, che risponde ad una qualche forma clinica di sofferenza psicologica (Favazza 1996).

Quest’ultima forma di autolesionismo può presentarsi in tre diverse condizioni:

  • Autolesionismo maggiore, dove il comportamento autolesivo è dato dal desiderio di mutilare il proprio corpo in una rara condizione che prende il nome di Disturbo dell’Identità dell’Integrità Corporea;
  • Autolesionismo stereotipato, dove il comportamento autolesivo (es. battere la testa sul muro o mordersi) è tipico di disturbi come la disabilità intellettiva e i disturbi dello spettro dell’autismo;
  • Autolesionismo superficiale, dove il comportamento autolesivo (es. tagliarsi, bruciarsi o urtare) non è dovuto alle altre condizioni.

L’autolesionismo superficiale può essere compulsivo se associato con Disturbi Ossessivo-Compulsivi (OCD) come Tricotillomania e Skin Picking. Diversamente viene definito impulsivo e può essere episodico (solitamente sintomo di altri disturbi) o ripetitivo.


Esiste la diagnosi di autolesionismo?

Al momento non esiste una diagnosi di autolesionismo nei manuali di riferimento poiché è necessaria ulteriore ricerca e ci sono dei dubbi ancora da chiarire. Se una diagnosi permetterebbe infatti una migliore comunicazione e una ricerca più puntuale (sia in ambito epidemiologico che psicoterapeutico), di contro ci sarebbero delle implicazioni etiche (ad es. lo stigma della diagnosi) e non è ancora chiaro il rapporto tra autolesionismo con e senza intenzionalità suicidaria.

Per tali ragioni il DSM-5 (APA, 2013) ha inserito tra le condizioni che necessitano di ulteriori studi il disturbo che ha definito come “Autolesività non suicidaria”. Tra i criteri ipotizzati vi sarebbero:

  • L’aver messo in atto nell’anno per almeno 5 giorni un danno intenzionalmente autoinflitto senza intenzione suicidaria;
  • L’avere l’aspettativa di ottenere sollievo, risolvere una difficoltà interpersonale o indurre una sensazione piacevole;
  • La presenza di difficoltà interpersonali o sensazioni o pensieri negativi (depressione, ansia, disagio o autocritica), preoccupazioni difficilmente controllabili rispetto al gesto o pensieri di autolesività.

Viene richiesto inoltre che il comportamento non sia sancito socialmente (es. piercing o tautaggi), che comporti disagio clinicamente significativo o compromissione in ambito sociale, scolastico o lavorativo e che non sia meglio spiegato da altre condizioni (es. disturbo psicotico, disabilità intellettiva, disturbo dello spettro autistico, tricotillomania o disturbo da escoriazione).


Autolesionismo: a che età inizia?

L’età di insorgenza dell’autolesionismo è tra i 12 e i 14 anni (Klonsky, 2007)


Autolesionismo: quanti ragazzi lo praticano?

Le ricerche epidemiologiche disponibili al momento rilevano che tra il 4.6% e il 6.6% della popolazione ha condotte autolesive. La percentuale nella popolazione adolescente è però tra il 12% e il 35%.

L’autolesionismo sembra infatti essere un fenomeno age limited. Molto frequente in adolescenza, tende a decrescere verso i 17-20 anni (Moran et al., 2012). È possibile che tale evoluzione del disturbo sia dovute alle caratteristiche psicologiche e neuroevolutive dell’adolescenza tra la costruzione dell’identità personale, le scarse abilità di fronteggiamento disponibili, le sfide del mondo dei pari e un sistema cognitivo che si sta ancora formando.


Perché le persone si fanno del male?

Secondo una review (Edmondson et al., 2015), in cui sono state raggruppate le motivazioni più spesso riportate da soggetti con condotte autolesive senza intenzione suicidaria, ci possono essere principalmente tre ordini di ragioni all’interno delle quali trovano posto motivazioni specifiche:

Fronteggiare il distress

  • Regolare le emozioni rendendo fisico il dolore emotivo
  • Influenzare l’ambiente interpersonale (richiesta di aiuto)
  • Punire sé stessi e, occasionalmente, gli altri
  • Gestire gli stati di distacco dalla realtà (dissociazioni) interrompendoli
  • Prevenire il suicidio interrompendo con l’atto autolesivo un’escalation di sofferenza

Cercare esperienze positive

  • Trarre gratificazione dall’atto e/o dalla sensazione
  • Sentirsi eccitati (non sessualmente) nella pratica autolesiva (sensation seeking)
  • Sperimentare qualcosa di nuovo
  • Proteggere sé stessi e gli altri da altre forme di comportamento ed emozioni (es. rabbia)
  • Sviluppare un senso di autoefficacia personale

Definire il sé

  • Esplorare i propri confini nelle sensazioni e nei comportamenti
  • Gestire la propria sessualità
  • Dimostrare a sé e/o agli altri la propria forza o grado di sofferenza
  • Aderire ad una particolare sottocultura o gruppo
  • Un modo per comunicare qualcosa ad altri o a sé stessi (es. ricordarsi di eventi significativi)

Quali sono le cause dell’autolesionismo?

Negli anni sono state postulate diverse teorie e diversi modelli per spiegare la causa dell’autolesionismo. Di seguito ne ho riportati tre tra i più accreditati sulla base della ricerca. Ognuno esamina il fenomeno ad un diverso livello di analisi e pertanto sarebbe bene averli in mente tutti e tre per comprendere il fenomeno.

Livello biologico

Il sistema serotoninergico e la regolazione degli oppioidi endogeni (es. endorfine) hanno una forte influenza nella relazione tra figli e genitore e svolgono un ruolo fondamentale nella gestione del tono dell’umore e delle emozioni (Panksepp et al., 2010).

La ricerca ha dimostrato come una carenza di serotonina e oppoidi endogeni porti ad un aumento dell’irritabilità e risposte aggressive e automutilative (Winchel e Stanley, 1991).

Tali alterazioni sono stati associati anche sperimentalmente ai disturbi in cui il comportamento autolesivo è un sintomo (Disturbo Borderline di Personalità e Disturbi dello Spettro Autistico).

Livello neurofunzionale

Le parti del cervello deputate all’elaborazione e alla gestione delle emozioni costituiscono la rete frontolimbica, formata da alcune strutture corticali e subcorticali (relativamente) specializzate:

  • Giro del cingolo, corteccia cingolata anteriore (ACC): coordinano le afferenze sensitive e le elaborazioni emotive
  • Corteccia orbitofrontale (OFC): gestisce elaborazione cognitiva e emotiva in relazione al contesto sociale: inibisce reazioni emotive
  • Corteccia dorsolaterale prefrontale (DLPC): controlla le Funzioni Esecutive (es. working memory) e processi superiori come la pianificazione
  • Ippocampo: implicato nei processi di richiamo del ricordo
  • Amigdala: implicata nell’attivazione della riposta emotiva

È stato evidenziato (Schamal e Bremner, 2006) che la rete frontolimbica sembra essere centrale per la disfunzione emotiva nei pazienti con disturbo borderline di personalità (nei quali le condotte autolesive sono molto frequenti).

È stato inoltre rilevato che se viene chiesto a pazienti autolesionisti di immaginare di star mettendo in atto una condotta autolesiva e di immaginare la propria reazione, il pattern di attivazione della rete frontolimbica è diverso rispetto a quello di soggetti di controllo a cui venga chiesta la stessa cosa (Kraus et al., 2010)

Livello comportamentale

Secondo i modelli comportamentisti (condizionamento operante), un comportamento a cui fa seguito una sensazione gratificante per l’individuo (rinforzo positivo) verrà da lui messo in atto con maggior probabilità di occorrenza in seguito, mentre diverrebbe meno frequente se fosse seguito da una sensazione avversiva (punizione tipo A).

In maniera speculare, un comportamento che permetta all’individuo di sottrarsi ad una sensazione spiacevole provando sollievo (rinforzo negativo) sarà probabilmente da lui messo in atto in situazioni simili mentre sarebbe meno frequente un comportamento a cui facesse seguito la cessazione di una sensazione piacevole (punizione tipo B)

È stato dimostrato (Messer e Fremouw, 2008) come il comportamento autolesivo risponda all’effetto del condizionamento sia dovuto a contingenze interne che di natura sociale. Il comportamento autolesivo è infatti rinforzato, aumentando quindi la sua probabilità di occorrenza, sia negativamente (riduzione di una sofferenza) sia del rinforzo positivo (rilascio di endorfine da parte del sistema nervoso in seguito alla lesione tissutale e maggior attenzione sociale.


Bibliografia

APA - American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition, DSM-5. Arlington, VA. (Tr. it.: Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Quinta edizione, DSM-5. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014).

Edmondson, A. J., Brennan, C. A., & House, A. O. (2016). Non-suicidal reasons for self-harm: A systematic review of self-reported accounts. Journal of Affective Disorders191, 109-117. https://doi.org/10.1016/j.jad.2015.11.04

Favazza, A. R. (1996). Bodies under siege: Self-mutilation and body modification in culture and psychiatry. Baltimore: Johns Hopkins University Press.

Klonsky, E. D. (2007). Non‐suicidal self‐injury: An introduction. Journal of clinical psychology, 63(11), 1039-1043.

Kraus, A., Valerius, G., Seifritz, E., Ruf, M., Bremner, J. D., Bohus, M., & Schmahl, C. (2010). Script‐driven imagery of self‐injurious behavior in patients with borderline personality disorder: a pilot FMRI study. Acta Psychiatrica Scandinavica, 121(1), 41-51.

Messer JM, Fremouw WJ. A critical review of explanatory models for self-mutilating behaviors in adolescents. Clin Psychol Rev. 2008;28(1):162‐178. doi:10.1016/j.cpr.2007.04.006

Moran, P., Coffey, C., Romaniuk, H., Olsson, C., Borschmann, R., Carlin, J. B., & Patton, G. C. (2012). The natural history of self-harm from adolescence to young adulthood: a population-based cohort study. The Lancet, 379(9812), 236-243.

Schmahl, C., & Bremner, J. D. (2006). Neuroimaging in borderline personality disorder. Journal of psychiatric research, 40(5), 419-427.

Winchel RM, Stanley M. (1991). Self-injurious behavior: a review of the behavior and biology of self-mutilation. Am J Psychiatry.;148(3):306‐317. doi:10.1176/ajp.148.3.306

Immagine tratta da: https://blogs.psychcentral.com/healing-together/2011/03/teen-cutting-and-self-injurywhy-do-they-do-this/

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